Io e mia madre nascemmo al medesimo crocevia; in un giorno di passaggio fra le nebbie bianche dell’inverno e il garrire della rondine.
Mi domando se morirò come lei. Con quella dignità regale. Con quella dolcezza infusa …
“Entro con mia madre nella morte. Lei ha paura.
Cerco nella mia filosofia qualcosa che ci aiuti,
parlo della cicuta e degli stoici,
dico la solita frase che quando noi ci siamo, lei,
la morte, scompare, ma non funziona
anzi cresce dentro di me il terrore.
Aspetta, le dico mentre dorme ora vado a guardare.
Perlustro la zona (sarà quella?)
solo per constatare che non c’è difesa,
che il suo spazio, quello che la fisica dice
sia presente fin da quando nasciamo,
è sguarnito di ogni compassione
e il tempo è davvero il buco che divora.
Allora mi stendo contro di lei dentro il suo letto.
Aspetto come smette il suo odore mentre muore.
Se avessi avuto più tempo là nel buio estivo
con l’edera che filtrava dalle grate
nella camera che chiamano ardente per i ceri
o il rogo che ci attende, o forse davvero per l’ardore
con cui chiediamo a chi ci lascia: resta,
le avrei detto cose semplici, quotidiane,
per l’ultima volta toccandole le mani.
Quando morì mia madre mio padre radunò i vestiti,
se li mise sul petto, un cumulo di stoffa
e restò a lungo così, sotto quel peso di calore,
una notte e un giorno,
per poi alzarsi e innaffiare
le piante già secche sul balcone”
Antonella Anedda